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IL MONUMENTO STORICO E L'ARCHISTAR
Sembra ovvio, ma non è così. Progettare in un edificio antico, che è frutto di saperi costruttivi preindustriali, che ha storie lunghe e vite stratificate, invecchiamenti particolari, richiede competenze diverse rispetto al progetto di una nuova costruzione; è necessario avere una cultura e una preparazione tecnica specialistiche nel restauro architettonico.
Altrimenti può diventare un progetto di distruzione.
THE HISTORICAL MONUMENT AND THE ARCHISTAR
It seems obvious but it isn't. Designing an ancient building, which is the result of preindustrial construction knowledge, (which has a long history and stratified lives), requires different skills compared to the design of a new construction; it is necessary to have a specialized culture and technical preparation in architectural restoration.
Otherwise it can become a project of destruction.
Nel campo della progettazione architettonica del nuovo gli archistar sono stati e sono un riferimento altissimo per tutta la cultura del settore. Hanno creato architetture, hanno aperto vie di ricerca, sperimentato volumi, spazi, soluzioni formali e tecnologiche, hanno avuto il coraggio e la capacità di concretizzare in architetture soluzioni estreme che sono state scuola e riferimento costante per tutti: architetti, ingegneri, committenti e imprese. Ma progettare in un edificio antico, che è frutto di saperi costruttivi preindustriali, che ha storie lunghe e vite stratificate, invecchiamenti particolari, richiede competenze diverse rispetto al progetto di una nuova costruzione; è necessario avere una cultura e una preparazione tecnica specialistiche nel restauro architettonico. Altrimenti può diventare un progetto di distruzione.
Prima della calata degli archistar nei monumenti storici italiani, esisteva un fertile e ricco dibattito che interessava sia quel ramo della progettazione del nuovo che si rapportava con l’antico sia quel settore del restauro architettonico che sondava i confini del rapporto antico-nuovo. Erano mondi che trovavano luoghi di scambio culturale, mondi che stimolavano un confronto tra studiosi che si riconoscevano in un ampio ventaglio di posizioni; pur nella diversità, la riflessione arricchiva tutti con beneficio della cultura dei progettisti e di quella dei restauratori.
Oggi tutto ciò tace, e pare che l’invasione degli archistar con interventi pesantissimi all’interno dei monumenti storici abbia spento non solo la riflessione sui limiti del progetto del nuovo nell’antico ma anche quello interno alla disciplina del restauro.
E’ una strana coincidenza.
Il tema di costruire il nuovo all’interno dei contesti storici si sa è antico e, senza scomodare i sacri padri del restauro, da Viollet-le Duc a Ruskin, da Boito a Giovannoni, o i critici e i maestri del dopoguerra, quali Pane e Bonelli, è stato sempre particolarmente sentito e dibattuto.
In un passato non tanto lontano, in merito all’architettura del nuovo che si accosta all’antico, che cerca un dialogo o anche una rottura, s’intravedevano alcune tendenze in primo piano ed altre non meno importanti sullo sfondo; penso alle realizzazioni di Scarpa e a quelle di Albini, di Gardella e di Rogers, fino alle pur diverse posizioni dei primi anni duemila di Gino Valle, Francesco Cellini e tanti altri.
In una lucida riflessione di qualche tempo fa Dezzi Bardeschi si chiedeva “(…) quali sono le (infinite) vie della cultura del progetto del nuovo che la ricerca architettonica conduce quando si accosta all’esistente” [Marco Dezzi Bardeschi, Oltre la conservazione: il progetto del nuovo per il costruito, in “ANANKE’”, giugno 2004, n° 42, p. 82] e continuava individuando una prima posizione “che vorremmo definire minimalista, ma non per questo rinunciataria, del progetto del nuovo, la quale può discendere ancora per continuità dalla prassi virtuosa del fu Movimento Moderno, una via purista sostanzialmente icastica, che si affida a volumi elementari, a superfici pulitissime, specchianti versus curtain-wall, nelle quali è d’obbligo esibire una techne di alta precisione”.
C’era poi quella via che lo studioso individuava come “etica, di un assoluto formale stereometrico, che disdegna ogni inutile indugio decò ed ogni deviante orpello ornativo.”, definita neocorbusiana, e qui indicava le differenti ricerche di Franco Purini o di Francesco Venezia. Era una progettazione colta, nelle motivazioni di fondo e nei riferimenti diretti, che si apriva al dialogo emozionale con la Storia ed in modo particolare con l’eredità del moderno.
In questo contesto si può rilevare anche quella tendenza high-tech, che mira a un’architettura della quasi esagerata leggerezza tecnologica, nella quale si tende a un’estrema sublimazione formale dei materiali. E’ questa la via dove, forse, c’erano i più apprezzati (ed imitati) esempi quali: Renzo Piano, Pastor, Norman Foster, Peter Zumthor o Herzog & de Meuron.
Ancora, in quel saggio veniva definita “eretica, erratica ... al di fuori di ogni canone prescrittivo e regola prestabilita...” quella linea "coltivata dal poeta sognatore che produce per un serio ludere, oggetti colorati, festosi e curiosi, come grandi giocattoli urbani." Un’architettura autoironica e apparentemente elementare, che ha qualità e si propone di accendere l’immaginario collettivo dove si trovano le esperienze che vanno da Aldo Rossi ad Alessandro Mendini, da Riccardo Dalisi a Coop Himmelb(l)au.
C’è anche da ricordare quell’architettura legata alla memoria che si confronta con la storia affiancando, all’elevata complessità del palinsesto esistente, l’arte povera dell’immaginario popolare tramite l’allusione e la metafora e inseguendo il piacere intrigante e fine della citazione.
Naturalmente le vie della ricerca e della progettazione erano più articolate e più numerose ma, sintetizzando, questi erano alcuni degli indirizzi che i grandi architetti esprimevano accostandosi alla Storia, interrogandosi sui linguaggi della nuova costruzione a fianco di quella esistente. La ricerca non percorreva strade unitarie ma coesistevano molteplici tendenze, che spesso tra loro s’influenzavano e si contaminavano, perlustrando vie sempre nuove nell’ottica compositiva e arricchendo il panorama della cultura.
Oggi la progettazione di molti archistar nel contesto storico pare concentrarsi all’interno di monumenti di grande importanza storica e architettonica rinunciando al dialogo colto per contrapporre il solo gesto forte dirompente, invasivo e irreversibile di arrogante violenza. Perché arrogante? Perché rinuncia al confronto, al dibattito critico, perché non da risposte confrontate con la cultura del restauro. Perché violenta? perché non si affianca al monumento antico con nuove architetture ma si insinua all’interno, lo demolisce, lo deforma e lo altera, perché aumenta i volumi, perché in pratica impone la modifica come unica via del progetto. L’ipotesi è che la lezione dei maestri, da quelli di ieri ai contemporanei, sia stata recepita solo nel suo lato peggiore: il devastante concetto di modifica; quello della modifica preconcetta del progettista innovatore, quando si cimenta con la Storia.
La modifica è un concetto che appartiene intimamente al progettista che esce dalle facoltà di architettura, il quale si sente mortificato e umiliato se non trasforma, se non aggiunge, se non toglie elementi dell’esistente storico e stratificato, sul quale pretende di trasferire a colpi di modifiche la propria creatività.
Il rispetto del dato storico e la creazione di aggiunte, non sostitutive e non prevaricanti, appare all’architetto compositivo come una limitazione a poter determinare la realtà attuale, da qui la rivendicazione da parte del progettista della libertà compositiva, che non deve essere limitata dall’antico, di cui chiede la libera reinterpretazione, la riprogettazione e, conseguentemente, la modifica.
A questo proposito, Vittorio Gregotti sosteneva che, progettando dentro o a fianco il costruito storico, “non si ha nuova architettura senza la modifica dell’esistente”, anzi sul “linguaggio della modifica” si fonda la vera sfida dell’architettura contemporanea, che non si esprime quasi più ex novo ma, oggi, è sempre di più una “progettazione sull’esistente”.
Teorizzare la modifica significa affrontare in modo ideologico la progettazione sull’esistente, ossia ritenere che il bene storico sia di secondaria importanza rispetto al personale atto creativo. E’ un linguaggio forte, spesso invasivo, quasi sempre prevaricante, che ha come primo obiettivo quello di contrapporsi al bene architettonico, cercando con esso un confronto per emergere e tenendo l’edificio del passato come sfondo, sul quale la nuova forma deve dominare.
Per dare voce a questo problema che da molti architetti e ingegneri è sentito profondamente, per far conoscere anche ai non addetti ai lavori l’entità delle trasformazioni che l’invasione degli archistar sta producendo nei contesti monumentali, per cercare di evitare che questi devastanti interventi si trasformino in esempi da seguire per nuovi mini-archistar e per tenere alta e costante l’attenzione nei confronti della conservazione del patrimonio architettonico ho ideato il dramma: “Il monumento storico e l’archistar. Dramma semiserio in tre atti”.
E’ un lavoro che racconta la storia di un monumento tramite la voce dei materiali antichi che lo costituiscono e che dialogano con un colto soprintendente approfondendo argomenti quali la storia delle tecniche costruttive, i limiti del progetto di restauro, cos’è l’autenticità, la stratificazione storica, ecc.. Il dialogo viene interrotto all’arrivo dell’archistar e del sindaco della città che illustrano il loro progetto basato naturalmente su demolizioni di murature, coperture e solai, aumenti di volume, rinnovo di pavimenti, intonaci e soffitti e tutte quelle modifiche care a quella filosofia d’intervento.
Il dialogo fitto e acceso tra i vari personaggi del dramma è interrotto da approfondimenti concreti e ben documentati relativi ai grandi interventi che la critica oggi discute: Chipperfield alle Procuratie in Piazza San Marco a Venezia, Calatrava nella Chiesa di San Gennaro a Napoli e tanti altri che spesso non si ha occasione di esaminare nel dettaglio.
Il racconto, che esce per i tipi di Il Poligrafo, si conclude in modo inaspettato tale da sorprendere e far riflettere il lettore.
Cesare Feiffer